PRIMO LIVELLO: LA PERSONA GIUSTA AL POSTO GIUSTO
Un’organizzazione è un insieme di persone che svolgono attività lavorative diverse, finalizzate ad un obbietivo comune. Quanto più c’è chiarezza nel cosa le singole persone sono chiamate a fare, tanto più i risultati del gruppo sono positivi.
Spesso, però, la chiarezza si ferma al titolo scritto sul biglietto da visita. Area manager, product manager, controller sono un’indicazione utile, ma – da soli – non dicono quello che l’azienda si aspetta che la singola persona – quotidianamente, giorno dopo giorno – faccia.
Pensiamo ad un caso classico di passaggio di ruolo: un venditore di un´azienda promosso ad Area manager. La sua area di competenza è chiaramente definita, il gruppo di venditori che riportano a lui sono individuati. Ma spesso lui è un venditore puro, ha sempre fatto il venditore ed è stato promosso a quel ruolo senza che nessuno gli dicesse altro che: vai!
È sufficiente, questo, per fare della sua azione quotidiana un’azione mirata e organicamente collegata alle altre azioni delle altre persone che lavorano nella stessa azienda? Il biglietto da visita e l’inserimento in un organigramma danno, di per sé, sufficiente chiarezza al ruolo?
La nostra esperienza porta a rispondere no a queste domande: in un’organizzazione serve dell’altro per far sì che le cose girino a dovere. Il primo punto del nostro metodo (“La persona giusta al posto giusto”) invita a riflettere sul ruolo e sul lavoro di cesello e di chiarimento costante che ogni capo è chiamato a fare per ogni posizione aziendale che riporti a lui. La nostra tesi è che solo un’attenzione costante all’aderenza della singola persona al ruolo che essa è chiamata a svolgere in un’organizzazione permetta di ottenere dei risultati. Chiaramente, il tema ha due facce: la chiarezza del ruolo, non sempre garantita da un semplice organigramma e l’adeguatezza della persona preposta ad occupare quel posto.
Per chi vuole entrare nel dettaglio:
a) IL POSTO GIUSTO: LA CHIAREZZA DEL RUOLO
Andrea è un giovane neolaureato che, da poco più di un anno, lavora per una grossa multinazionale di servizi. Il suo capo lo stima e, approfittando di una ristrutturazione, lo propone per un incarico manageriale di grande responsabilità. Andrea non dubita un attimo e accetta l’incarico. Alla prima riunione del Management team dell’azienda, dopo pochi mesi dalla nomina, Andrea subisce l’esame del CEO del gruppo. Dopo un’ora di analisi dettagliata dei singoli progetti in corso, dei dati di vendita e della redditività della sua BU, tutti i presenti sono definitivamente conquistati dalla personalità di Andrea. Il CEO gli si rivolge con parole semplici e chiare: “si ricordi che il progetto Aurora è di sua competenza. Sarà lei a doverne rispondere”. Si trattava di un progetto a cavallo tra due BU, di cui a nessuno, da mesi, era chiara l’attribuzione. Da quel giorno, Andrea farà tesoro di quelle parole. Il progetto Aurora sarà uno dei progetti meglio gestiti e più produttivi di tutta l’azienda.
Andrea è stato fortunato. Il messaggio del CEO, netto e chiaro, detto in riunione in un momento solenne, ha lasciato in lui, inevitabilmente, un’impronta pesante e duratura. E lui, inconsapevolmente, si è dedicato al progetto di cui il CEO gli aveva direttamente attribuito il successo tirando fuori il meglio di sé, producendo performance che andavano molto al di sopra della media. Questi sono i messaggi che guidano chi li riceve, che riempiono i ruoli, danno forza e fanno produrre risultati.
Perché i ruoli hanno senso solo se sono pieni, riempiti dal capo che, collegandoli all’organizzazione dell’azienda, riesce a vederne le sfumature, a riempirne i contorni e a renderli produttivi. Chi risponde di certe azioni? Chi deve parlare al cliente di quel problema? Chi decide se un collaboratore è pronto per una nuova posizione?
Sono domande alle quali molto spesso il manager non si accorge di non rispondere, dandone per scontate le risposte o, peggio, lasciando che le cose si aggiustino da sole, in un modo o nell’altro. Ma così le cose non funzionano: la perdita di competitività che deriva dalla mancata chiarezza dei ruoli è enorme e porta con sé conseguenze disatrose per la vita delle aziende.
Vediamo nel dettaglio due casi classici di “trappole” in cui spesso cadono i capi che dovrebbero chiarire e riempire i ruoli dei collaboratori.
La trappola della fatica
Antonio è stato da poco nominato Export manager di un’azienda multinazionale. La sua carriera si è svolta in ambito commerciale, dove Antonio ha dimostrato a più riprese di saperci fare e di avere qualcosa da dire, sia come venditore sia come capo di venditori. Tra l’altro, il suo nuovo lavoro lo porterà a risiedere per la prima volta in Germania, primo mercato estero per l’azienda. Il suo capo, Elisabetta, gli sta spiegando il nuovo lavoro ma Antonio è perplesso: è la prima volta che l’azienda inserisce in quel ruolo un resident manager, portando direttamente sul campo di battaglia una figura tradizionalmente di headquarter. Tra le decine di possibilità di interpretazione di quel ruolo, qual è quella che l’azienda desidera? In particolare, la figura dovrà essere impegnata pesantemente sul campo insieme ai venditori o dovrà mantenere un certo distacco che permetta di delineare le strategie di conquista del mercato? E poi: l’insieme di conoscenze e di sensazioni che saranno raccolte sul mercato come verranno recepite dalla sede centrale? Antonio cerca di fare domande a Elisabetta, ma le risposte sono vaghe.
Dopo un po’, egli capisce che la stessa Elisabetta non ha ben chiaro quello che l’azienda vuole da lui: vendere di più, certo, ma le modalità di svolgimento del ruolo rimangono indefinite ed affidate al suo intuito. Antonio si accorgerà presto che la libertà di delineare un ruolo a piacimento, insieme a innumerevoli vantaggi, ha enormi buchi che avrebbero penalizzano significamente la sua performance.
In questo caso l’azienda si è mossa sulla scia di un’intuizione. Come spesso succede, avuta un’idea organizzativa (buona o cattiva che sia, questo, in questa sede, non ci riguarda) Elisabetta se ne è innamorata e la ha perseguita senza riempirla di contenuto. Il ragionamento, più o meno, è stato il seguente:
- credo che ci sia da sviluppare il business in Germania.
- credo che da lì la cosa si possa fare meglio che da qui.
- voglio inserire un Export manager in Germania.
- ho trovato la persona.
- vai!
Che cosa manca in questo approccio? Perché Antonio, che condivideva l’idea di fondo di Elisabetta, alla fine non ha capito quale fosse, nel dettaglio, il suo compito? Perché, infine, il progetto è stato un fallimento o comunque ha dato all’azienda meno di quanto avrebbe potuto?
Crediamo che Elisabetta sia stata oggetto di quella che chiameremo la “trappola della fatica”. Delineare un ruolo, entrare nel dettaglio di azioni quotidiane, comportamenti, recinti di competenze costa fatica. E’ duro e richiede uno sforzo che spesso i manager non sono in grado o non vogliono compiere. Intendiamoci: per fare questo serve conoscere il business, le persone, i prodotti. Serve, insomma, essere professionalmente validi. Ma non crediamo che sia questo il punto dolente (o, quantomeno, non è su questo aspetto che in questa sede vogliamo concentrarci). Qui vogliamo sottolineare la necessità, da parte del capo capace, di fare uno sforzo supplementare per delineare con chiarezza il ruolo del collaboratore, spingendosi in dettagli di posizione, di responsabilità, di azione quotidiana che – se ignorati – non rendono intelliggibile quallo che il capo si aspetta dal collaboratore, che deve coincidere con l’apporto che l’azienda si aspetta che la persona, in quel ruolo, dia al raggiungimento dell’obbiettivo generale. Solo evitando la trappola della fatica e facendo uno sforzo supplementare si riesce a delineare il ruolo con successo.
Un altro aspetto importante riguarda la caduta nella trappola della fatica. Il capo vi cade inconsapevolmente o lo fa consapevolmente? Il primo caso è il più semplice: l’invito a riflettere o un corso di formazione potrebbero essere sufficienti a correggere il modo di agire del dirigente.
Il secondo caso richiede un’attenzione maggiore. Spesso, infatti, i manager non entrano nel dettaglio del ruolo dei collaboratori, cadendo quindi nella trappola della fatica, per crearsi degli alibi, lasciando aperte delle incertezze di responsabilità e di attribuzione di risultati che potrebbero tornare loro utili in futuro. E’ il caso classico del “vai avanti” sussurrato e non esplicitato, in attesa di vedere come si concluderà la questione e per attribuirsene, o meno, i risultati. Il caso di caduta volontaria nella trappola della fatica è molto grave e foriero di pessime indicazioni sullo stato di salute generale dell’organizzazione. Va evitato, quindi, fortemente. Tutta l’organizzazione deve essere mobilitata per evitare che questo succeda.
Le principali conseguenze di questa trappola sono:
- perdita di efficacia nell’azione dei singoli
- appiattimento delle performance di unità, divisioni, reparti
- perdita dei talenti
La trappola della paura
Alessandro è stato scelto come Direttore commerciale di un’azienda, che – da anni – produce e vende con successo in tutto il mondo beni durevoli in un settore di nicchia. I tre soci che la hanno fondata venti anni fa sono attivi in azienda con compiti diversi: Paolo (il socio anziano) è Presidente, Luigi è l’Amministratore (e superiore gerarchico di Alessandro), Lilly, la figlia di Paolo, dirige una Divisione particolare. Nell’assumere il nuovo Direttore commerciale, i tre soci avevano espresso in modo chiaro la volontà di affidargli in toto lo sviluppo commerciale dell’azienda. Dopo qualche mese, Alessandro si convince della necessità di lanciare un nuovo prodotto per il mercato asiatico. La sua proposta, accolta entusiasticamente da Luigi, non riesce però a partire. All’ufficio tecnico non sanno, il marketing nicchia. Solo dopo molte insistenze e parecchio tempo buttato via, Alessandro, mettendo alle strette Luigi, viene a sapere che un’espressione dubbiosa di Paolo riguardo al nuovo progetto (da lui ignorato nei dettagli), manifestata in mensa davanti a molti responsabili di settore, aveva creato un clima avverso di tutta l’azienda verso l’operazione, di fatto bloccandola. Solo parlando con Lilly, Alessandro riesce a fare sbloccare il progetto ottenendo un via libera informale da Paolo.
A differenza della trappola della fatica, tipica delle aziende strutturate, la trappola della paura è molto comune in aziende non strutturate managerialmente, familiari o gestite da pochi soci. Qui, anche se formalmente esiste un processo decisionale strutturato, la vera forza di cui tenere conto è quella di chi detiene, al di là di cariche e ruoli, il vero potere. Nel nostro caso, è chiaro che Luigi, pur essendo il CEO dell’azienda, non ha la possibiltà di agire come tale, dovendo adattarsi a quello che decide o sembra decidere Paolo, vero dominus dell’azienda. Di più: tutta la struttura aziendale si è inconsapevolmente adattata a questo modello di gestione, cui risponde al di là dell’organigramma e dei singoli ruoli e responsabilità.
In questa situazione, il ruolo di Alessandro, al di là di enunciati verbali più o meno decisi, non potrà venire delineato con chiarezza e tutta la sua azione ne risentirà pesantemente. La “paura” di agire autonomamente che permea la struttura, la mancanza di familiarità con l’autonomia che ogni posizione aziendale deve possedere (beninteso, in un ambito limitato) fanno di ogni ruolo – in aziende dominate da questo tipo di trappola – un falso ruolo.
Le principali conseguenze di questa trappola sono:
- deresponsabilizzazione dei singoli
- immobilismo dell’azienda su tutto
- nessuna possibilità di innovare prodotti e processi
- gravi problemi di passaggio di potere
- perdita dei talenti migliori
- bassa professionalità generalizzata
In conclusione, per quanto riguarda i ruoli, solo la chiarezza paga. Solo definendo e cesellando i confini del ruolo e seguendo l’azione del dipendente – a livello teorico-organizzativo – nei minimi dettagli, il manager otterrà dal collaboratore una performance eccellente. Lo sforzo che è richiesto al dirigente è importante ed essenziale per la salute dell’azienda ed è un impegno aperto, leale e sfidante che porta vantaggi e sprigiona energia vitale a tutti i livelli dell’organizzazione.
La prima parte del primo livello del metodo Noss si concentra, inevitabilmente, sul ruolo.
b)
Giampaolo è stato da poco scelto come Area manager di un’azienda di prodotti durevoli. Fino a quel momento, la carriera di Giampaolo si è svolta tra vendite, gestione di clienti, un po’ di coordinamento di uomini. Da oggi dovrà gestire un’area vasta e complessa, dove lavorano, coordinati da lui, cinque agenti. L’area versa in condizioni pessime: il fatturato è in calo costante e si è dimezzato negli ultimi tre anni, i venditori sono regolarmente ultimi nella classifica aziendale, i clienti sono sempre più nervosi e lasciano l’azienda numerosi. Nel momento dell’assunzione il Direttore commerciale – capo diretto di Giampaolo, anch’egli da poco in azienda - delinea il suo ruolo in modo attento e preciso. E’ solo per questo che Giampaolo decide di accettare la sfida. Dopo un anno, cambiate un po’ di persone, creato un dialogo costante con i collaboratori, attuato un piano di riunioni perodiche, l’area di Giampaolo risulterà essere l’unica – in azienda – con crescita importante, con venditori motivati ed in testa alle classifiche individuali di vendita.
Roberto ha sempre fatto il venditore in un’azienda di prodotti alimentari. Negli anni, spesso si è distinto per i brillanti risultati e per l’aggressività e la decisione con cui persegue gli obbiettivi, spesso superando i target richiesti. La sua ambizione, da un po’, era di crescere ed il posto di Area manager – pensava – gli spettava quasi di diritto. Anche al Direttore commerciale dell’azienda, peraltro, quell’avanzamento sembrava positivo: è giusto – si diceva – che i migliori vadano avanti e Roberto è sicuramente il migliore. Il successo sarebbe stato assicurato. Dopo pochi mesi dalla sua nomina, invece, l’area di Roberto – inspiegabilmente – risultava la peggiore dell’azienda. I suoi uomini, normalmente mediamente performanti, erano scesi agli ultimi posti della classifica aziendale, i clienti erano scontenti, il fatturato in agonia. Roberto non capiva: lui continuava a lavorare direttamente con i clienti, telefonava ogni giorno ai suoi uomini minacciandoli e mettendo loro il fuoco, faceva migliaia di chilometri al mese. Le sue vendite personali continuavano ad essere buone, ma quelle dei suoi collaboratori andavano a picco. Evidentemente, concludeva sconsolato, io sono l’unico veramente bravo.
Perché due situazioni all’apparenza simili possono dare risultati così differenti? In questo caso l’imprimatur dei due capi è stato soddisfacente ed il ruolo in cui Giampaolo e Roberto si sono trovati ad operare era chiaro e ben delineato. E allora? Come è evidente, un grosso peso nel successo o nell’insuccesso di inserimenti di persone in nuovi ruoli dipende dal talento, dalle esperienze e dalla voglia di imparare delle persone stesse.
Quello che ci preme sottolineare, in questa sede, è, da un lato, l’esistenza di persone che possono e di persone che non possono occupare determinati ruoli; dall’altro, più nel dettaglio, quello che, in un’azienda sana, dovrebbe succedere in presenza di collaboratori fuori ruolo.
In un’azienda sana il capo valido è tenuto a spostare ad altra mansione (o, più semplicemente, a fare uscire dall’azienda) il collaboratore fuori ruolo. Questo per due motivo fondamentali: il collaboratore fuori ruolo fa del male agli altri e fa del male a sé stesso. La sua collocazione in quel posto è antieconomica e alloca in modo sbagliato delle risorse che dovrebbero essere allocate in altro modo.
Guardiamo il caso di Roberto: ottimo venditore, non ha saputo – evidentemente anche perché male guidato – fare il passaggio all’altro ruolo. Di fatto, egli continua a fare il venditore, forse il super venditore, ma non fa il suo mestiere di Area manager. Così facendo, egli dà un doppio contributo negativo all’organizzazione: non dà l’apporto di venditore che potrebbe dare, non sviluppa la sua rete di venditori. Il suo inserimento in quel ruolo è una mossa doppiamente fallimentare per l’impresa. Giampaolo invece ha capito perfettamente quali sono i suoi nuovi compiti: dare stimoli, mettersi, se necessario, in secondo piano rispetto ai suoi uomini, lavorare sui singoli con attenzione e stima. E’ compito precipuo del capo indagare queste situazioni e risolverle. Non ci sono strade alternative e ogni minuto di tolleranza ha bisogno di mesi per essere, poi, sanato.
Ma anche qui le trappole che impediscono l’azione del capo sono sempre presenti.
La trappola del “l’ho fatto io, quindi è giusto”
Perché il capo di Roberto non agisce e, dopo avere insistito con il collaboratore, dopo averlo guidato, affiancato e valutato nel nuovo ruolo, non lo rimuove immediatamente? Perché lo ha messo lì lui. Per un manager – come per ogni essere umano – è difficile ammettere di avere sbagliato. Ma qui si vede la differenza tra un dirigente di livello ed uno che vale poco. Solo ammettendo l’errore, comprendendolo e lavorando per evitarne altri in futuro, il manager fa il suo mestiere. Altrimenti, il rischio di trascinarsi tra un errore e l’altro è molto grande. Soprattutto, dal nostro punto di vista, il rischio di creare e tollerare una struttura organizzativa non performante è molto alto.
La trappola del clan
Renzo è Direttore generale di un’azienda di beni durevoli. Non si sente sicuro nel ruolo (ha sempre lavorato solo in amministrazione) e fatica ad imporre la sua personalità. Così, si circonda di amici: il collega fidato diventa Direttore amministrativo, l’amico conosciuto alla business school è ingaggiato come Direttore commerciale, il vicino di casa promosso Direttore tecnico. Tutti bravi, s’intende, e fidati professionisti arruolati per raggiungere l’obbiettivo comune. Non c’è dubbio di come lavoreranno, perché si tratta di amici con i quali Renzo ha qualcosa in comune.
Non c’è niente di male nel circondarsi – come capo – di persone fidate e amiche. La cosa, anzi, è tendenzialmente positiva. Diventa, invece, patologica nel caso in cui sia solo l’amicizia iniziale a portare all’assunzione, senza nessuna valutazione dell’adeguatezza professionale dell’assunto. Peggio, talvolta l’amicizia iniziale oscura letteralmente tutte le vere o presunte qualità della persona, diventando l’unico parametro di giudizio. Gli amici, nel momento in cui vengono assunti, devono essere giudicati come professionisti. Altrimenti, il rischio che un’ impresa performante si trasformi in un gruppo-vacanze goliardico e non meritocratico è molto alto. L’amicizia, insomma, non può impedire la fredda valutazione dell’aderenza della persona al ruolo.
Riassumendo, una delle caratteristiche essenziali del mestiere di manager è decidere. Il manager deve decidere, è pagato per decidere. Tra le decisioni più importanti che egli è chiamato a prendere, quelle riguardanti le persone sono le più importanti. Perché da queste decisioni dipende – direttamente – il futuro dell’impresa.
È necessario, quindi, che il manager dedichi buona parte del suo tempo a pesare le persone che dipendono da lui, cesellando insieme a loro il loro ruolo, ed osservandone i movimenti da diverse angolature. L’aderenza di un collaboratore ad un ruolo, ancora prima che con i dati e con le azioni, va percepita con l’intuito, quell’insieme di esperienza, intelligenza, scaltrezza e buon senso che un dirigente deve possedere. Una volta intuito e confermato il giudizio, positivo o negativo, sull’aderenza al ruolo della persona, c’è una sola cosa da fare: agire.
La seconda parte del primo livello del metodo Noss si concentra sull´aderenza delle persone al ruolo occupato.
Consulenza e formazione aziendale
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